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Due fratelli, l'uno alpino l'altro
marinaio - complice il destino - dopo 4 anni che non si vedevano nè
sapevano l’uno dove l’altro fosse, si ritrovano entrambi prigionieri in
Polonia ed insieme tornano a casa. Si chiama San Valentino la piccola località
austriaca a pochi chilometri dal confine italiano dove la bellezza di 55
anni fa Carlo e Francesco Gianoli - due di nove fratelli originari di Sondalo
- trascorsero la cosiddetta 'quarantena' a causa del tifo contratto durante
le loro vicissitudini belliche di prigionia prima di poter rientrare in
Italia alla fine della seconda guerra mondiale. La loro storia ha veramente
dell'incredibile; Francesco (classe 1920) e Carlo (classe 1925) l'uno soldato
di leva degli Alpini nella Tridentina 5E Battaglion Tirano mentre l'altro
marinaio radiotelegrafista provetto, arruolatosi volontario a Venezia Mestre,
dopo il fatidico 8 settembre vengono entrambi catturati e perseguiti senza
saperlo dallo stesso destino infame: quello di essere spediti nei campi
di concentramento tedeschi nel nord della Polonia. Il primo uscito indenne
dalla sacca di Nikolajewka, l’altro arruolatosi volontariamente e prima
del tempo al richiamo di “vieni in marina, imparerai un mestiere, diventerai
un uomo”, sono finiti invece nel grosso inganno dell’8 settembre 1943 che
avrebbe dovuto rappresentare la libertà, la fine della guerra, ma
li ha condotti nella sventura più grossa di passare 20 mesi sotto
i tedeschi e 6 sotto i russi.
Per tutti e due, infatti, due comincia un lungo e interminabile calvario
tra pericoli e sventure prima di riuscire a scappare e ritornare nella
loro terra, per giunta insieme: sì, perché il destino ha
voluto che i due fratelli, uno alpino e l'altro marinaio, inspiegabilmente
in quella terra estranea e lontana si siano incontrati . "La vita e le
condizioni stremanti nei lagher tedeschi di Kiliningrad sul Mar Baltico
al confine con la Lituania - racconta per primo Francesco - presto finì
per l'arrivo delle truppe russe alleate degli americani che costrinsero
i tedeschi, non più in grado neppure di badare a se stessi, ad aprire
i campi e a lasciar fuggire noi prigionieri. Mi unii a folle disperate
di gente sbandata vestito da russo, percorrendo sotto i bombardamenti di
Kaliningrad anche lunghi tratti a piedi sui fiordi baltici ghiacciati.
Più volte mi fermai in qualche fattoria a lavorare come panettiere,
il mio mestiere, per poter mangiare, costretto poi a scappare dalle razzie
tedesche. Innumerevoli gli incontri nei boschi - dove pendevano teste di
impiccati - con soldati tedeschi e russi che riuscii miracolosamente ad
imbrogliare grazie ad una buona conoscenza della lingua. 200 kilometri
di peripezie nel tentativo di raggiungere il porto di Danzica e lì
imbarcarmi. Invece riacciuffato dai tedeschi riscappo di nuovo trovando
rifugio in una fattoria dove sto 15 giorni; l’arrivo dei russi i grandi
bombardamenti segnano il mio destino di fuga continua”.
Anche Carlo stava vivendo la stessa sorte nello stesso periodo, negli stessi
giorni, ma su un percorso diverso. Ad un certo punto Francesco riesce a
salire insieme a molti altri prigionieri in pseudo libertà su un
convoglio ferroviario che dopo lo smistamento viene spezzato in due: una
parte si ferma a Brombergh, l'altra, quella di Francesco raggiunge Torun.
Sul treno che si ferma alla prima destinazione c'è Carlo Gianoli:
“di Gianoli sul treno - gli dice un amico soldato - ce n’è anche
un altro”. Così Carlo va alla ricerca del fratello a Thorun e lo
aspetta di ritorno dal lavoro sulla sua misera branda. L’incontro è
commovente, la contentezza indescrivibile, tutti fanno festa suonando e
cantando attorno ai due fratelli ricongiunti, ma Carlo deve fare ritorno
al suo campo, già febbricitante per il tifo. Ripercorriamo con Carlo
le sue vicissitudini fino a incontrare il fratello. “La mia storia di prigionia
a Elbing prima di ritrovare mio fratello è andata avnti per 20
mesi - racconta Carlo - lavorando in una cava di sabbia e quindi in una
fonderia dove l'aria era alquanto malsana; poi arrivarono i Russi che ci
liberano e scappai alla volta di Danzica. Sulle colline della cittadina
mi fermai giorni a lavorare scavando trincee per un pezzo di pane poi mi
rifugiai in un bunker con un'amico; un tenete russo mi salva la vita e
mi regala una fisarmonica che salta in aria al mio posto sotto una raffica
di mitra tedesco. Poi ci raggruppano su quel famoso treno: io avevo già
contratto il tifo".
"Dopo quella volta che rividi mio fratello Carlo - prosegue Francesco -
lui si ammalò ed io cominciai a inseguirlo in varie baracche di
pronto soccorso, fino all'ospedale di malattie infettive. "Mosna sastra"
(permesso sorella) "Gepasla?" (dove vai) "Mi brother balnoi" (da mio fratello
che è malato) ”Drogoi Gorot” (è stato trasferito in un altra
città). Francesco lo raggiunge. "Kaghgila, Carlo?" (come stai, Carlo).
“Riesco a stargli vicino lavorando in cucina al posto suo” racconta Francesco.
Qui si inserisce forse la pagina più commovente della storia perché
anche Francesco si ammala di tifo, entrambi stano veramente male, ma per
fortuna una dottoressa russa che si era affezionata ai due fratelli li
fa viaggiare insieme, da un camerone di ospedale all’altro e li cura a
forza di punture di canfora, il vaccino di allora. Prima guarisce Carlo,
poi Francesco ed insieme arrivano sul convoglio alle porte dell'Italia,
in Austria, nel paese di San Valentino. Dopo la quarantena attraversano
il passo del Brennero e raggiungono Pescantina, in provincia di Verona,
dove i militari italiani li registrano sulla scheda di rimpatrio e danno
loro 2.500 lire. Alla stazione di Milano un altro episodio particolare:
Francesco, puntato dagli sguardi insistenti di un tizio che pensava di
averli riconosciuti, sta per prenderlo a sberle quando quello gli fa: "Siete
i fratelli Gianoli?” Era il cognato piemontese, che loro non avevano mai
visto, sposatosi a loro insaputa con la loro sorella: venuto a conoscenza
di un treno di prigionieri in arrivo dalla Polonia era andato per caso
a vedere alla stazione di Milano se ci fosse stato qualcuno dei suoi, e
c’erano. Inutile parlare, poi, di tutta la gente che quel giorno di fine
novembre del 1945 era ad accogliere i fratelli Gianoli alla stazione delle
corriere di Bolladore. |